IV Domenica di Pasqua. Le mie pecore

IV Domenica di Pasqua. Le mie pecore

Dal Vangelo secondo Giovanni 10,27-30

            In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

Sono molti quelli a cui capita di sentirsi smarriti tra le onde di una folla che ti sfiora senza accorgersi di te, quasi a ricordarti che sei solo un individuo tra i tanti. La folla non ha volto e il tuo si confonde tra quello degli altri. Oggi, poi, viviamo un’esperienza paradossale: nonostante le nuove tecnologie facilitano la comunicazione, per quanto si moltiplicano gli eventi che raccolgono insieme migliaia di persone, sembra diffondersi sempre di più un diffuso un senso di solitudine e di emarginazione. Il vangelo di questa Domenica, attraverso l’immagine di Cristo buon Pastore, offre a questo proposito un’esperienza singolare. Gesù non parla delle pecore, ma delle “mie” pecore a sottolineare un’appartenenza, un legame personale con lui. Apparteniamo al suo gregge e non ad una folla anonima. Il buon Pastore ci assicura che siamo conosciuti personalmente da lui: “Io le conosco” dice Gesù. Un’affermazione che conferma il rapporto di intimità tra il Pastore e le pecore. Per questo le pecore lo ascoltano e lo seguono. Due verbi che dobbiamo necessariamente recuperare nel loro più autentico significato per non disperderci nell’anonimato della folla. Nelle relazioni più importanti, ascoltare non è una semplice questione di orecchie, ma un’attenzione che coinvolge mente e cuore. In una società frenetica, preoccupata di programmare più impegni in poco tempo, non solo riesce difficile ascoltare, ma si vive la triste esperienza di non essere ascoltati. In una cultura sempre più individualistica, dove l’altro diventa sempre più qualcuno da cui difendersi, il rischio è che anche i cristiani si trasformino in pecore che non ascoltano il pastore. Quando la fede è solo una dimensione marginale della nostra vita, quando si riduce solo ad una serie di precetti da osservare, la fede rischia di diventare solo una ritualità che si preoccupa solo di una presenza, ma senza coinvolgimento. Ascoltare la voce del Pastore può aiutare anche ad ascoltare la parte più profonda di noi stessi, quell’angolo della nostra vita sotterrato dalla diffidenza o dalle preoccupazioni, ma nel quale Dio si ostina a parlarci. Anche il verbo “seguire” che dovrebbe caratterizzare le pecore affidate a Cristo, non può essere interpretato e vissuto come una fredda osservanza dei comandamenti. “Seguire” significa mettere i propri passi sulle orme di chi ci precede. Per i cristiani è l’esperienza che caratterizza i discepoli. Diventa allora importante chiedersi dietro quali passi procede il nostro cammino. Spesso si è più preoccupati di “seguire” una moda o il flusso della massa per non sentirsi emarginati nella realtà in cui si vive. Spesso si segue chi grida più forte e mostra i suoi muscoli promettendo di difenderci dai lupi che lui stesso ha sguinzagliato. Nella nostra cultura, forse il riferimento al pastore con il suo gregge può apparire troppo romantico, o addirittura offensivo perché definire come pecora una persona non ha il sapore di un complimento. Ma se il Signore ci definisce “sue pecore” non è per offendere la nostra dignità di uomini o insinuare la nostra passività. Al contrario: solo nelle relazioni con gli altri noi prendiamo consapevolezza di chi siamo. Solo di fronte ad un “tu” posso dire “io”. Essere pecore del buon pastore significa riscoprire la propria identità e sentirsi amati per quello che si è veramente, senza maschere e senza vergogna.

don Mimmo

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