La Confessione: bellezza di un incontro
LA CONFESSIONE: BELLEZZA DI UN INCONTRO
“Pietà di me, o Dio, nel tuo amore” (Sal 50,3)
Il salmista si pone dinanzi a Dio ma prima di parlare del suo peccato fa appello alla sua misericordia, al suo amore. L’inizio del Salmo è sufficiente per renderci conto che il significato della confessione si comprende prima di tutto dal riferimento all’amore di Dio. Non è possibile comprendere il significato della Confessione se non alla luce dell’incontro con Cristo. Scrive Benedetto XVI nella sua Deus caritas est:
“All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva.” (Benedetto XVI, Deus caritas est, 1).
Se guardiamo al racconto evangelico di Zaccheo ci rendiamo conto che la sua conversione è conseguenza dell’incontro con Cristo. Zaccheo è prima di tutto visto e chiamato da Cristo. Il fatto di essere stato guardato e chiamato per nome da Cristo, suscita in Zaccheo il desiderio di dare una svolta alla propria vita. E’ alla luce dell’incontro con Cristo che Zaccheo decide di restituire e donare quanto ha rubato.
Anche nella parabola del “figliol prodigo” la decisione del figlio minore di ritornare dal padre nasce dalla memoria del suo rapporto con lui, dal ricordo di quanto vissuto nella casa paterna, dalla consapevolezza che il padre non lo rifiuterà.
Sono solo alcuni esempi che ci permettono di comprendere che può sperimentare la lontananza provocata dal peccato solo chi ha sperimentato la bellezza della vicinanza a Dio. La conversione non precede l’incontro con Cristo, ma è l’incontro con Cristo che provoca la conversione.
Una prima domanda che è necessario fare, prima di continuare la riflessione è chiedersi: perché ci confessiamo o perché dovremmo farlo? Non è possibile parlare di questo sacramento senza aver prima risposto a questa domanda. Forse siamo ancora condizionati da una visione legalista della Confessione e la interpretiamo e viviamo come un dovere, un atto necessario per non soccombere sotto la condanna di Dio. Non può essere il senso di colpa o un vago rimorso a portarci verso la Confessione, ma solo il senso del peccato, e il senso del peccato nasce dal senso di Dio.
Cosa distingue il senso di colpa dal senso del peccato? Possiamo sinteticamente dire che il primo ha un carattere psicologico, mentre il secondo ha un carattere teologico. Cioè il senso di colpa coinvolge solo me stesso, mentre il senso del peccato chiama in causa il mio rapporto con Dio.
Ci sono due aspetti fondamentali che dobbiamo considerare per una corretta interpretazione della confessione:
– essa non si muove in una dinamica giuridica, dove l’imputato incontra il giudice, ma nella dinamica dell’amore, dove il figlio avverte il desiderio di incontrare il padre.
– per questo, prima ancora di essere un atto umano, la confessione è un atto divino perché è Dio stesso che attraverso lo Spirito che abbiamo ricevuto ci spinge, ci sollecita alla conversione.
“Contro di te, contro te solo ho peccato” (Sal 50,6)
Il desiderio della Confessione non può che nascere dal pentimento. San Girolamo dice che “il nostro pentimento è profumo per il Salvatore”. (Girolamo, Commento al Vangelo di san Marco, II, 1).
Affermare che il nostro peccato è solo “contro Dio” non significa che esso non implichi anche un riferimento agli altri che posso aver offeso. Affermare di aver peccato “solo contro Dio” ha un significato più ampio. Significa che solo davanti a Dio posso prendere coscienza del mio peccato.
La confessione non può nascere da un vago senso di rimorso, ma da uno sguardo attento alla propria vita. Dio già conosce i miei peccati perché conosce il mio cuore. Sono io che devo prenderne coscienza. Ma posso farlo solo davanti a Dio.
Noi chiamiamo questo momento “esame di coscienza” ma si tratta di un termine che può portare a qualche equivoco. Dobbiamo interrogare la nostra coscienza, ma la nostra coscienza da chi o da cosa è stata educata?
E’ la Parola di Dio che mi aiuta a crescere nella fede e ad alimentare il mio rapporto con Dio.
Un esame di coscienza che si riduce solo ad interrogare qualche comandamento rischia di diventare molto superficiale e può portare ad un atteggiamento solo legalistico. Il confronto con la Parola di Dio interroga la mia vita, illumina e orienta le mie scelte. Dal confronto con la Parola di Dio, quindi, nasce nel credente la consapevolezza delle proprie fragilità, del proprio disorientamento, infine del proprio peccato.
La riforma liturgica ha voluto che tutte le celebrazioni contemplassero la lettura della Sacra Scrittura, quindi anche il sacramento della Confessione. Paradossalmente, ancora oggi, è l’unico sacramento che celebriamo senza alcun riferimento alle Scritture.
Queste considerazioni impongono ancora una domanda: come ci prepariamo a ricevere il sacramento della Confessione?
“Tu gradisci la sincerità nel mio intimo” (Sal 50,8)
Leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica:
“Con l’accusa, l’uomo guarda in faccia i peccati di cui si è reso colpevole; se ne assume la responsabilità e, in tal modo, si apre nuovamente a Dio e alla comunione della Chiesa al fine di rendere possibile un nuovo avvenire” (CCC 1455).
Confessare i propri peccati non è un atto di umiliazione ma un atto di sincerità. Prima di tutto verso se stessi. Chiamare per nome i peccati significa non soltanto riconoscerli. Dare un nome alle proprie colpe è condizione necessaria per poterli guarire. Non possiamo assumere alcuna terapia se non conosciamo la malattia che ci fa soffrire.
Il momento della confessione, e in particolare il momento dell’accusa delle proprie colpe, chiama in causa il rapporto tra il penitente e il confessore. Spesso ci chiediamo: perché confessarsi davanti a chi, in fondo, è un uomo come me e quindi peccatore? Questa domanda conferma la nostra visione troppo orizzontale della Confessione.
A questo proposito dobbiamo necessariamente ricordare cosa significa celebrare un sacramento. Un sacramento è un’esperienza di fede nella quale una realtà umana, grazie all’azione dello Spirito, assume il valore di una realtà divina. Chi mi sta davanti, non sta lì per accusarmi o giudicarmi. Non confesso i miei peccati ad un uomo, ma a Dio stesso. Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, il sacerdote confessore è “il segno e lo strumento dell’amore misericordioso di Dio verso il peccatore” (CCC 1465).
Allo stesso tempo, la presenza del confessore mi aiuta a vivere il passaggio dal senso di colpa, che coinvolge solo me e la mia coscienza, al senso del peccato che chiama in causa il mio rapporto con Dio. Il sacerdote davanti al quale confesso le mie colpe mi ricorda che la confessione è un incontro: l’incontro con Dio. E’ chiaro che questo aspetto chiama in causa anche la presenza del sacerdote chiamato ad essere in questa celebrazione docile strumento della misericordia di Dio. E’ soprattutto lui che attraverso i suoi gesti e le sue parole ha la responsabilità di far sperimentare al penitente tutto l’amore paterno di Dio. Tuttavia anche il penitente, se animato dal desiderio sincero di confessare le proprie colpe, non deve lasciarsi disorientare dallo strumento umano attraverso il quale Dio stesso vuole incontrarlo.
“Crea in me, o Dio, un cuore puro” (Sal 50,13)
Il salmista non si limita ad invocare la misericordia di Dio per il proprio peccato, ma chiede anche di poter diventare una nuova creatura perché consapevole che il perdono di Dio gli permetterà di dare inizio ad una nuova vita. La finalità della confessione è chiedere a Dio che dia inizio ad una nuova creazione, perché il verbo “creare” appartiene solo a Dio.
Nella pagina evangelica di Giovanni che racconta l’incontro del Risorto con i suoi discepoli leggiamo:
“Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,21-23).
Prima di affidare ai discepoli la responsabilità di offrire o meno il perdono dei peccati, Gesù dona loro lo Spirito alitando su di loro. Tutti i biblisti sono d’accordo nel ritenere che il gesto di Gesù sia da interpretare alla luce del gesto creatore di Dio, a quell’alito di vita con cui l’uomo diventa essere vivente. Possiamo quindi interpretare la missione dei discepoli, chiamati ad annunciare il perdono di Dio nel contesto della nuova creazione.
Alla luce di queste considerazioni, comprendiamo che la Confessione non è semplicemente la remissione dei peccati, ma proprio perché tale essa inaugura una nuova creazione. Per il credente la Confessione realizza la possibilità di poter ritornare alla nuova creazione realizzata con il Battesimo. Comprendiamo perché sant’Ambrogio mette in relazione il Battesimo e la Penitenza: “la Chiesa ha l’acqua e le lacrime: l’acqua del Battesimo, le lacrime della Penitenza” (Ambrogio, Epistula extra collectionem, 1 [41], 12). I due sacramenti sono strettamente legati perché tutti e due esprimono il rapporto filiale d’amore che lega l’uomo a Dio. Come per il Battesimo, anche per la Confessione possiamo affermare che “ciò che avviene in questo sacramento è pertanto innanzitutto mistero di amore, opera dell’amore misericordioso del Signore” (Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti al Corso sul Foro Interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, 16.03.2007).
Oggi si parla spesso di crisi del sacramento della Confessione e tra i motivi principali si addita il fatto che si è perso il senso del peccato. Per quanto questa lettura può essere vera, tuttavia vale la pena prendere in considerazione anche il contrario: non ci si confessa più perché si è perso il senso del peccato, ma si è perso il senso del peccato perché non ci si confessa più, cioè non ci si mette più come umili creature davanti a Dio.
Mimmo Falco
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